Un giorno di primavera del 1990. Un giorno come gli altri, fatto di gesti quotidiani, percorsi noti, volti conosciuti. Poi una notizia inaspettata e tragica che ti scaraventa in uno spazio ignoto, ma da dove puoi rivedere il tracciato della tua vita e tornare al momento in cui tutto è cominciato.
Armida Miserere inizia la sua carriera nell’amministrazione penitenziaria a metà degli anni ottanta. Umberto è un educatore impegnato nelle attività di riabilitazione dei carcerati. L’amore tra Umberto e Armida nasce nel piccolo teatro del carcere, dove Umberto dirige i primi esperimenti teatrali con i detenuti, e diventa presto una passione travolgente. Quando l’incontriamo sono una coppia stabile, Armida dirige il carcere di Lodi, mentre Umberto lavora al carcere di Opera. Vivono insieme in una casa a metà strada tra le due città, circondati dall’affetto di pochi amici. Provano ad avere un bambino, ma la gravidanza si interrompe. Rimarginate le ferite, continuano a guardare avanti con l’ottimismo degli idealisti.
La posizione di educatore porta Umberto ad essere molto vicino ai detenuti e questo lo espone a pressioni e tentativi di corruzione. Un giorno di primavera, inaspettatamente, poco prima della pasqua del 1990, viene ucciso mentre va al lavoro. Il mondo di Armida va a pezzi.
I primi anni novanta sono segnati dagli spettacolari attacchi della mafia allo Stato italiano. Armida che è una servitrice dello Stato senza più nulla da perdere e si è fatta conoscere come un direttore tra i più fermi e corretti dell’amministrazione, viene mandata subito in prima linea a Pianosa, il supercarcere riaperto per sorvegliare i mafiosi più pericolosi. Applica la legge senza deroghe e riceve critiche e intimidazioni, ma non si fa impaurire. È l’unica donna in un’isola abitata da 1500 uomini e riesce a farsi rispettare instaurando un rapporto di cameratismo con i suoi uomini. Appena il lavoro le dà tregua, cerca un po’ di solitudine per correre con i suoi cani nella natura incontaminata dell’isola.
Non ha dimenticato Umberto, ma la solitudine pesa e ha fame d’amore, tra gli agenti in servizio sull’isola, trova Maurizio un addetto alla sua sicurezza. Tenta di cominciare una nuova vita affettiva e si lascia andare ad una storia d’amore.
Appena ricomincia a sognare si accorge che Maurizio non è Umberto, e diversamente da lui non lascerà la famiglia per lei.
In assenza di una vita di coppia il suo mondo affettivo si coagula intorno agli amici di lavoro come Riccardo, Rita e altri magistrati, direttori di carcere, agenti di scorta, persone con cui condivide i ritmi stressanti della giustizia nelle carceri o della lotta contro la criminalità organizzata.
Il lavoro è la sua vita, lo fa senza compromessi e a volte paga di persona. Quando collabora con Giancarlo Caselli e Alfonso Sabella alla cattura di Giovanni Brusca, deve lasciare Palermo per le ripetute minacce di morte.
Riccardo è un amico e un magistrato che le è molto vicino nella continua ricerca della verità sulla morte di Umberto. Finalmente, durante un maxi processo alla ‘ndrangheta in Lombardia uno degli uomini del clan confessa di essere stato l’assassino di Umberto e racconta la circostanza e il movente. Tutto corrisponde a quanto Armida aveva sempre sospettato: Umberto è stato ucciso per non essersi lasciato corrompere da un boss, anche se il fango che i pentiti gettano sulla figura di Umberto sono insopportabili.
Sempre più delusa dall’umanità, Armida comincia ad essere stanca e demotivata nonostante la stima che riceve sul lavoro. A Sulmona, nel supercarcere che dirige da qualche anno, nessuno si accorge del suo cambiamento, ma Armida ha un piano per liberarsi di tutti i suoi pesi.
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Marco Simon Puccioni racconta la vita dal 1989 al 2003 di questa donna coraggiosa, piena di senso di giustizia, anche inflessibile, ma insieme sensibile, femminile – in un mondo prevalentemente maschile, come quando è l’unica donna su tutta l’isola di Pianosa – anche desiderosa d’affetto e di bellezza. Una vita che lei sognava normale: fatta d’amore, quello interrotto brutalmente con l’educatore Umberto Mormile, il cui lutto le pesa sempre; quello per un figlio perduto per aborto spontaneo; quello forse possibile di nuovo con Maurizio, che si tira indietro; quello spostato su due cani, uccisi per avvertimento e poi su altri due che li sostituiscono; quello per alcuni amici e colleghi attraverso i quali tentare d’arginare la solitudine. Ma la sua peregrinazione, la via crucis (come la chiama lei stessa nell’ultimo messaggio) cede alla stanchezza e al suicidio: una morte cercata come si cerca l’approdo, l’ultima certezza rimasta, persino la rinascita della speranza (quella forse di rivedere Umberto).
Dalle Note di regia
Quando la Pasqua di dieci anni fa ho letto la notizia del suicidio di Armida Miserere, direttrice del carcere di massima sicurezza di Sulmona, ho pensato subito che avrei voluto raccontare la sua storia. Mi aveva colpito molto la vicenda di questa donna catapultata in una delle istituzioni più maschiliste e opprimenti della società che, senza rinunciare alla sua femminilità, riesce a governare gli uomini reclusi e stabilire rapporti camerateschi e di amore con i suoi compagni di lavoro. Mi interessava anche capire come e perché questa fibra, apparentemente così solida, era arrivata a spezzarsi. Indagando nella sua biografia ho scoperto che, 13 anni prima, il suo grande amore, Umberto Mormile, era stato ucciso dalla ‘ndrangheta apparentemente perché non si era lasciato corrompere.