Maddalena Cecconi adora la figlia Maria, una bambina di otto anni che gli occhi di mamma fanno credere bellissima, e quando sente che il regista Alessandro Blasetti sta cercando una bambina per fare un film la fa partecipare a tutti i costi, tra la folla di mamme e figlie dell’audizione. Nonostante le difficoltà, Maddalena spende per la bambina in foto, parrucchiere e abiti, corsi di ballo e recitazione, oltre che per pagare un millantatore che le promette di far avere particolare attenzione al provino della bambina, la quale però non sembra interessata e sul più bello scoppia a piangere. Capito dalle risate della troupe di essersi sbagliata, Maddalena ora la vuole riportare a casa, né cede alla tentazione di firmare il contratto che il regista, nonostante le lacrime di Maria, vuole comunque fare per scritturare la bambina.
Note a margine
Luchino Visconti trae da un soggetto di Cesare Zavattini una sorta di melodramma satirico sui falsi miti del cinematografo. Usa infatti lo spunto neorealista come semplice pretesto per ispirarsi a L’elisir d’amore di Gaetano Donizetti nel descrivere l’ambiente di Cinecittà e i suoi spacciatori di illusioni. Dal melodramma deriva il tono agrodolce del film e l’alternarsi dei motivi grotteschi e patetici. Ma la ragione principale che spinse il regista a dirigere Bellissima fu l’occasione di dedicarsi a un ritratto femminile. Fin da Ossessione (1943), Visconti desiderava lavorare con Anna Magnani (Nastro d’argento come miglior attrice 1952). Lasciando spazio alla sua capacità d’improvvisare, Visconti si sofferma sulle motivazioni psicologiche e le frustrazioni di fondo del personaggio di Maddalena, superando così i limiti del bozzetto di costume, propri del soggetto iniziale.
Lino Miccichè sosterrà che il film «lungi dall’essere una condanna “neorealistica” del cinema non realistico è una polemica frontale contro un cinema non più riformabile, non più modificabile, non più rifondabile», come si vedrà poi meglio con Senso (1954).