Antonio Scannagatti, compositore di belle speranze, sogna da un paesino del napoletano, Caianello, di debuttare alla Scala di Milano con una sua opera. Nessuno comprende la sua arte, neppure il maestro Tiburzi, direttore della banda del paese, impegnato a organizzare un’accoglienza a suon di musica in onore di Joe Pellecchia, un compaesano che ha fatto fortuna in America.
Un’improvvisa paralisi costringe però il maestro a cedere il posto a Scannagatti che si fa onore superando brillantemente la prova. Incoraggiato dal piccolo successo, Scannagatti decide di prendere il toro per le corna e recatosi a Milano, dopo aver rubato i soldi per il viaggio al focoso cognato siciliano, in una esilarante trasferta, riesce a entrare, travestito da infermiere, nello studio del famoso impresario Tiscardi dal quale aspetta la risposta relativa a una composizione inviatagli anni prima.
Una serie di equivoci costringe lo sfortunato musicista a rifugiarsi in un teatro di marionette per sfuggire all’infuriato Tiscardi che finisce per scoprirlo mimetizzato tra i burattini in una perfetta imitazione di Pinocchio. L’impresario è conquistato dal talento del bizzarro compositore e decide di dargli la grande occasione. Scannagatti ce l’ha fatta: la sua opera viene rappresentata alla Scala di Milano.
Note a margine
Steno alla regia (e alla sceneggiatura, assieme ad Age e Scarpelli), confeziona uno dei primi film a colori italiano (Ferrania Color, fotografia di Tonino Delli Colli). Un Totò-robot, folle e metafisico, compone un’antologia delle migliori battute e sketch del suo repertorio teatrale. Scrive Ennio Flaiano a proposito della comicità del grande Totò: «Certo è che appena Gassman si scopre una vena comica da grande maschera diventa “popolare” più del suo teatro. E non parliamo di Sordi, Manfredi, Tognazzi, che studiano un certo tipo di italiano-maschera, lo indagano nel suo mammismo, nella sua viltà, nella sua irrecuperabilità, insomma nel suo antieroismo. Non parliamo di Peppino De Filippo che arriva al fondo addirittura filologico del “servo”, alla sua bertoldesca sciocchezza. Tutti i personaggi di questi comici esistono, ma direi che basano la loro consistenza su una certa miserabilità umana, troppo umana. […] Noi ridiamo dei loro vizi modesti, della loro eterna fame di denaro e di donne (non di amore, ma di possesso) dei guai e dei disastri in cui si cacciano. Perché sono tutti nostri […]. Ora Totò era lontano da tutto questo, e si può fare l’ipotesi che egli nella commedia italiana rappresentasse la zona metafisica, non i caratteri ma l’imponderabile, il grottesco, l’inverosimile […]. Per questo Totò va cercato nel suo centinaio di film, non in uno solo, nella continua follia di una maschera che non fa della satira o tantomeno della sociologia, ma propone esclusivamente sé stessa […]. Nella frantumazione della commedia dell’arte, mentre i “servi” Brighella, Arlecchino e Pulcinella (come abbiamo visto) si sono dati a rappresentare il mondo possibile nelle vesti dei loro padroni, Totò si è dato a illustrare, come in una striscia comica, dunque sempre à suivre, l’assurdo della sua presenza in quel mondo». (da Ennio Flaiano, Nuove lettere d’amore al cinema, Rizzoli Editore, prima ed. maggio 1990).
Ogni osservazione sulla regia di Totò a colori non può prescindere dal ruolo predominante dell’attore, dalla sua strabordante vis comica che non può che subordinare a sé stessa ogni altra operazione di messa in scena, di scelta dell’inquadratura, di movimento di macchina, di montaggio.
Lo stesso Steno dichiara: «non era il caso di stare a fare della regia. Fu come se avessi dato la macchina da presa in mano a Totò. I tempi di Totò erano perfetti, perché lui li aveva sperimentati anni e anni con il pubblico.» La modestia di Steno, questo suo mettersi a servizio dell’attore e dei suoi tempi comici, è comunque anche una grande, apprezzabile, prova di intelligenza registica.