Durante il lockdown, abbiamo assistito a un evento che non ha precedenti nella storia: la
chiusura di tutte le scuole italiane. La più grande istituzione culturale del paese,
inaccessibile per mesi, è sopravvissuta solo grazie a piattaforme online americane, ma ha
perso moltissimi studenti. L’arretratezza tecnologica, le problematiche economiche e
psicologiche legate al lockdown, sono state un potentissimo agente di discriminazione
sociale. Abbiamo potuto toccare con mano quanto la condivisione e l’interazione siano un
fattore determinante nella crescita culturale.
Non tutto può essere spostato online. Proprio questa consapevolezza rende più
insopportabile il peso che opprime tutta la cultura che richiede una condivisione dal vivo.
La scorsa estate sugli aerei e nelle discoteche si stava come sardine, mentre cinema, teatri
e musei erano chiusi, o tenuti a rispettare un rigoroso distanziamento.
Noi che lavoriamo nel mondo dello spettacolo proviamo ormai un senso di isolamento.
Cosa significa aprire le discoteche e chiudere teatri, cinema, musei?
Si tratta davvero di attività che possono essere sospese ad libitum, senza conseguenze?
Eppure le democrazie vivono di luoghi di incontro, di momenti in cui celebrare il rito laico
della trasparenza, dell’uguaglianza, della fraternità.
Le nostre società hanno un profondo bisogno – oggi forse ancora più di un tempo – di
avere cittadini con tutti i sensi ben svegli, capaci di emozionarsi per la bellezza di
un’opera d’arte o di indignarsi per l’ingiustizia e per tutto ciò che è contrario ai valori che
ci rendono umani. Cittadini, non sudditi. Esseri umani che non vengano indirizzati in una
comfort zone da sofisticati algoritmi, mentre gli scambi interpersonali si riducono, il
coinvolgimento con l’altro avviene se “serve” a qualcosa. Smascherare la manipolazione,
il complottismo, lo sfruttamento, la disinformazione richiede un allenamento che viene
dalla condivisione, dal rapporto diretto tra persone che sappiano riconoscere il valore
della verità, anche quando non è facile o confortante.
Chi crede in questi valori, non può rimanere indifferente a ciò che sta accadendo.
È diventato impossibile programmare il nostro lavoro: spettacoli, mostre e film vengono
cancellati e rimandati; cinema, teatri e musei riportano perdite milionarie.
Le piattaforme online invece grazie al lockdown, si sono ulteriormente rafforzate. Non si
tratta di demonizzare la tecnologia. È chiaro che in un momento così grave il loro ruolo è
stato positivo. Dobbiamo però osservare meglio i nuovi scenari che si aprono, le
conseguenze a lungo termine. E in primo luogo, i grandi processi di accentramento e di
oligopolio che stanno trasformando le nostre esperienze nel campo della cultura.
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Con poche eccezioni, quelle piattaforme appartengono a grandi gruppi americani. I loro
algoritmi propongono “diete” individualizzate, legate a ciò che hai visto in passato: un
complottista o un no-vax ricevono dunque nuove proposte che alimentano le loro
convinzioni. Gli algoritmi non sono pensati per alimentare la dialettica e la diversità
culturale. Anzi. Più riescono a creare un pubblico “segregato” in diversi segmenti, più
sono commercialmente efficaci. “I giovani non vedono gli stessi programmi degli anziani;
le persone istruite ignorano i programmi di cui si nutrono le persone non istruite; i poveri
non vedono quello che vedono i ricchi. Questi algoritmi (…) disgregano le società
nazionali e ricostruiscono segmenti globali che non si identificano in storie comuni, non
si conoscono e non si parlano” (Piero De Chiara, Forum Diseguaglianze e Diversità).
Anche quando aprono una base nel nostro paese, queste piattaforme operano
tendenzialmente in un regime esclusivo: ognuna di esse distribuisce all’utente finale le
opere che produce, che spesso sono pensate per tutto il mondo. Il controllo di tutta la
filiera dà a queste piattaforme degli enormi vantaggi di scala e massimizza i loro profitti.
Questo progressivo impoverimento della concorrenza, assieme alla crisi del Coronavirus,
rischiano di distruggere quel tessuto di autori, e produttori che hanno
assicurato in questi anni la vitalità e l’innovazione, portando il cinema italiano in molti
ambiti internazionali di prima grandezza. L’enorme accentramento di potere decisionale
nelle mani di pochi minaccia anche le piccole distribuzioni e tutti gli esercenti di qualità
che in questi anni hanno saputo creare un rapporto privilegiato con il proprio pubblico.
Ma soprattutto rischiamo tutti noi come cittadini e come spettatori.
Già prima di questa pandemia, film o documentari di grande rilievo diventavano presto
invisibili: la loro vita, il loro incontro con il pubblico erano assicurati solo da una rete di
piccoli distributori, e da esercenti di cinema che combattevano spesso un impari lotta per
conservare spazi di autonomia nella programmazione.
Questa rete virtuosa ha saputo preservare la diversità e la ricchezza nei linguaggi, la
possibilità di affrontare temi e argomenti difficili o fuori dal coro: è questo il solo
patrimonio di tanti indipendenti che in questi anni non si sono arricchiti, ma hanno difeso
l’esistenza di un’alternativa al mainstream. Questo patrimonio è in pericolo: forse perché
non è quantificabile con un estratto conto, con le cifre del capitale sociale o con il numero
dei dipendenti fissi.
In Italia si è sempre parlato della piccola impresa come motore del paese: il nostro cinema
questa capacità della piccola impresa se l’è vista riconoscere a tutti i livelli, dai grandi
festival internazionali, alle sale nazionali che hanno aiutato a crescere nuovi autori, ai
broadcaster.
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Nel nostro settore però nel frattempo si diffondeva una sotto-cultura imprenditoriale che
predicava la necessità di “fare meno film” e potenziare le grandi società: come se le due
cose fossero collegate!
Per ironia della sorte, spesso gli alfieri di questa idea involutiva hanno poi rinunciato a
produrre per il cinema o hanno finito per vendere la propria società e la propria
indipendenza a grandi gruppi internazionali.
È forse venuto il momento di confrontarci con l’ipocrisia nella quale siamo vissuti negli
ultimi anni: quando il cinema italiano è stato grande nel mondo, erano tantissime le teste
che avevano il potere di dire “sì” o “no”, tanti i modi di finanziare i film e altrettante le
possibilità di distribuirli.
Stiamo andando da tempo in una direzione completamente opposta.
Davvero la politica può rimanere a guardare mentre le scelte decisionali si allontanano
sempre di più dal nostro paese? A chi fa comodo indebolire i ranghi di quei produttori che
si rifiutano di essere dei semplici appaltatori? Siamo sicuri che sia nell’interesse dei
cittadini ridurre il numero di film, il numero di filmmaker, autori, distributori ed esercenti
che rivendicano il diritto di restare indipendenti?
Una comunità per continuare a parlarsi, per sentirsi unita, ha bisogno di superare
divisioni e intolleranze grazie alla condivisione di esperienze e di un immaginario comuni,
su cui possa fiorire il confronto tra punti di vista diversi.
Sfuggire all’isolamento, difendere l’appartenenza a un’idea di cinema e di televisione non
omologate e non “provincializzate” diventa un primo passo da condividere.
Chiediamo tutti insieme un confronto con la politica intellettualmente più onesto, più
coraggioso, in difesa della vitalità e del pluralismo della cultura italiana ed europea.
Un pubblico segregato in segmenti non è nell’interesse di una comunità.
Le difficoltà e i conflitti che emergeranno dopo la pandemia metteranno a dura prova la
nostra società. Per evitare pericolose derive politiche e disgregazioni identitarie che già
vediamo pericolosamente in azione, la cultura dovrà avere un ruolo da protagonista.
In un’epoca in cui la parola popolo è spesso usata come un’arma impropria, diventa
ancora più necessario potersi raccontare, conoscere, riconoscersi: è questo il dono che
abbiamo da offrire, il debito che ognuno di noi contrae con gli altri quando sceglie di
appartenere a una comunità aperta, non governata dalla facile retorica nazionalista, dalla
rabbia, dalla paura.