La parabola artistica ed esistenziale di Lou Castel in Italia, il paese dove l’artista di origini svedesi si è formato come attore, diventando, nell’immaginario collettivo, il volto simbolo del cinema della contestazione di Bellocchio, Cavani, Samperi. Un vissuto “intrappolato” tra due personaggi emblematici entrambi diretti da Marco Bellocchio: l’Alessandro dell’esordio con I pugni in tasca (1965, film-manifesto di una generazione che stava per esplodere di lì a poco con il ’68) e il Giovanni della rinascita con Gli occhi, la bocca (1982, l’inizio di una seconda carriera dopo la stagione della militanza politica degli anni ’70).
Attraversando una Roma sospesa, a metà tra archeologia post-industriale e relitti pasoliniani, Castel si apre ad un lungo flusso di (in)coscienza sulla complessità e le contraddizioni del suo ruolo d’attore e, insieme, di militante politico, in un generoso atto d’amore verso quello che è il suo mestiere oggi, dove recitare non è mai un processo puramente meccanico, ma un modo di stare al mondo, un’occasione di vita, persino un gesto rivoluzionario, di continua affermazione del proprio essere. E dove ogni caduta, ogni crollo, è un’opportunità di rilancio e di apertura verso il nuovo, l’altro.